Quanto tempo ci resta?

Gintama//R-18.

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    Quanto tempo ci resta?




    Le aule vuote, il rumore in lontananza dei banchi che strusciano sul pavimento, mentre un grugnito è l'unico verso che si può sentire dal corridoio deserto. Le finestre aperte come a lasciar purificare le pareti bianche e piene di fogli strappati, tutti con la solita copertina stampata sopra.

    Non c'è niente di anormale in quel luogo, nemmeno il silenzio tombale o i rumori sinistri e consecutivi che si odono. È come stare in una scatola, in un barattolo, chiuso da pareti, protetto e non protetto da qualcosa più grande di noi. L'aria densa che scivolava fuori e diventava fresca, il sole che va a scaldare piano i pavimenti e le porte, alcune di queste aperte. Una in particolare, è spalancata. La porta marrone, il legno graffiato e vecchio, proprio come quei banchi accatastati in fondo alla stanza, là dove lui si trovava, là dove il silenzio moriva. I capelli corvini, scuri, apparentemente tinti, come da tempere color ametista. Quei fili sottili e lisci che si vanno a irradiare e sfumare col sole.



    Le spalle ricurve, la camicia stracciata in più parti, sbottonata sul petto e i calzoni stretti intorno alle gambe, sporchi di terra e di sangue.

    Se ne sta accovacciato a terra, mentre gli occhi sono macchiati di liquido caldo, mentre l'iride brucia e diventa mano a mano sempre più rossa, più sensibile, andando a consumare tutto quel verde che in realtà inizialmente aveva. La mano colpì di nuovo il pavimento, con forza, irruenza, pazzia. Le nocche schioccarono ancora, andando a macchiare la pelle di rosso e lacerando la mano dal dolore. Ma non è quello il male, non è quello che lo fa piangere come un bambino, come un forsennato, che lo rende dannatamente isterico e pazzo.

    Quella è la cura, era la soluzione a ogni male, è qualcosa che aiuta a calmarlo, qualcosa che lo distrae del tutto.

    Le labbra spalancate, mentre la gola placa ogni gemito, ogni respiro, lasciandolo annegare nel dolore, lasciandolo morire in quell'istante.

    Magari, fosse morto. Magari il suo cuore cessasse di battere. Ma il fato non è mai stato buono con gli esseri umani, il fato è bastardo e il corpo ci mette secoli prima di consumarsi, prima di diventare polvere.

    La mano si scagliò ancora contro il suolo, il rimbombo sordo giunse fino al corridoio, mentre quella buona va a graffiare le mattonelle, distrugge le unghie, le spezza e le lascia sanguinare copiosamente sul pavimento.

    Non c'è nessuno lì. Non c'è nessuno che possa udire tutto quel dolore, che possa udire il male che il suo cuore puro in realtà sta celando e soffocando.

    La mano corrosa dal granito andò a poggiarsi su un occhio, la pazzia lo lasciò degenerare, poi si chiuse intorno a esso, intorno alle ciglia sottili e la vista si azzerò, lasciando il volto bagnarsi di sangue.

    E finalmente uscirono, le grida, il fiato, andando a intossicare i polmoni di puro ossigeno.




    Quanto tempo ci resta ancora prima di poter respirare davvero?

    Quanto tempo abbiamo per raggiungere il proprio posto nel mondo?




    Dicono che non tutti trovano la propria casa, la propria famiglia, il proprio amore, il proprio amico del cuore, non tutti raggiungono l'apice del successo e non tutti si ritrovano a sfoggiare abiti di marca o lauree con 100 e lode. Non tutti vivono a pieno la loro vita e si lasciano trascinare da quella degli alti, da quella dei vivi. Ma quanto ci resta per aprire gli occhi e osservare quanto mai di più bello c'è al mondo, quanto è tanto mai semplice afferrarlo e farlo nostro, perché nel nostro covo personale lo vogliamo, come bambini che catturano farfalle colorate o sassi di varie forme e dimensioni.

    Collezioniamo oggetti, parole, attimi, gesti. Collezioniamo ogni cosa che il nostro impulso e il nostro “io” interiore desidera. Poi, una volta sazi di quella collezione, la gettiamo, l'accantoniamo da una parte, fino a dimenticarcene, fino a non ricordarcene nemmeno. Teniamo cose che non ci servano, ricordiamo parole che non sono essenziali e soffriamo per persone che forse non ci hanno mai amato davvero, o forse, ci hanno amato troppo e ora ci lasciano vuoti di tutto.

    Ci ritroviamo inermi, nei casi più estremi, su un letto, fasciati sul volto, sulle stesse mani che una volta abbiamo proteso felici verso quella persona ora scomparsa dalla nostra vita, verso quell'uomo che non si sa se è stato davvero nostro. Guardiamo sconnessi da tutto davanti a noi, la tenda verdognola tirata, il fondo del letto fatto di sbarre fredde, così come le lenzuola che avvolgono le gambe. E ci perdiamo nei pensieri, più angusti, più strani, più drammatici e malsani.

    O almeno, questo è quello che lui sta facendo, quello che lui sta passando e quello che lui non supererà.




    ***




    “Come ti chiami?”



    “...”



    “Ooh~ Sei forse sordo? Guarda che se hai le mutande incastrate nel sedere non ci sono problemi, eh! Non mi vergogno mica se te le risistemi, basta che non mi fai una faccia da stitico.”



    “Non ho la faccia da stitico, stupido idiota. Tanto meno le mutande su per il culo.”



    “Ooh~ Ma allora ce l'abbiamo la lingua! Eheh.. come siamo permalosi, dai, non guardarmi così, o non mi farai più svegliare il piccolo Gin.”



    “Pff.. il tuo cosa?”



    “Andiamo sto parlando del mio pene! Dio, sei forse ritardato. Aaah.. non ho voglia di parlare con i ritardati, me lo fanno afflosciare.”



    “Hoi! Non ricordo di aver finito di parlare con te. Non mi hai fatto una domanda?”



    “Mh?”



    “E poi se non lo vuoi floscio dovresti lasciarti toccare un po'... sicuro di averlo piccolo?”



    “Oh...hei! Vacci piano con quella mano... è...”



    “Cosa? Cos'è?”



    “Mmh... pff! Sei un pervertito allora.”



    “E tu ce l'hai duro solo per qualche carezza...”



    “Guarda che si mi vieni così vicino con la bocca ti bacio.”



    “Provaci e te la stacco a morsi.”



    “Mmh... Sembra dolorosamente eccitante.”




    Il corpo sbatte contro la porta, le mani sono poggiate sui glutei, si stringono su essi, con forza, foga, affanno. Le altre mani sono sulle spalle, e graffiano la maglia, quel golfino morbido e fastidioso, di troppo. Raggiungere la pelle sembra ardua, sembra dura. C'è affanno mentre le lingue si scontrano, le gambe si arpionano ai fianchi, le mani dai glutei scivolano alle cosce ed è allora che la porta sbatte forte. Si apre. La stanza è vuota e semi illuminata, non ci sono persone, non c'è professore in giro, solo una serie di banchi disposti per uno , in fila perfetta, davanti a una cattedra. Ed è lì che i corpi si fermano, si scontrano, come due auto in corso, che accelerano senza paura di uno schianto. E le lingue lottano, bagnano labbra e menti, la saliva che cola e lo sguardo affilato di entrambi si scruta, per poi annebbiarsi e oscurare ogni cosa. Le mani navigano, come in cerca di tesori nascosti, in terre inesplorate e sconosciute. Ma la mappa è chiara nella testa, il sentiero illuminato appena da una lampada a olio caldo, come caldo è il petto di entrambi. I bottoni saltano, le camice si sfilano e i golfini ormai affogano al suolo di quel mare salato e turbolento. La schiena sbatte sul banco, mentre il ragazzo dalla capigliatura argentea lo sovrasta, le gambe tra quelle dell'altro, mentre un braccio va a pulire il mento. Lo sguardo affamato, come un animale nel suo momento di caccia. Ma quella non è una preda, non è il nemico, è la stessa razza che appartiene alla sua. Entrambi hanno lo stesso odore, la stessa essenza, solo i corpi mutano, solo gli occhi celano passati diversi e intrecciati.

    Scivola lenta e calda, verso il collo, accarezza la clavicola e si ferma su un capezzolo. Poi le mani afferrano la chioma con forza, la tirano in alto e c'è uno sguardo divertito e pieno di prese in giro. Grugnisce, il ragazzo che predomina l'altro e lo sbatte di nuovo al banco, finendo per fargli mollare la presa dalla propria capigliatura, finendo, per togliergli i pantaloni e alzargli le gambe. Le porta alle spalle, mentre se ne sta inginocchiato davanti all'altro. Poi le gambe vengono fatte salire e lui scende con la bocca, i boxer ormai levati con i restanti indumenti, la nudità del ragazzo è esposta alla sua bocca, ai suoi occhi languidi e maliziosi. Lo lappa a partire dalla base, scivolando verso i genitali, accarezzando con la lingua morbida e bagnata i peli pubici, scivolando poi verso l'altro, come in una ripida discesa, in direzione del glande. Pulsa, una, due, tre volte. Il membro si rigonfia sempre di più, la bocca lo avvolge e comincia a succhiare, comincia a pompare con enfasi quella virilità ora dura come il marmo, lo stesso che sta a un metro dai loro piedi.

    E l'altro si inarca, puntato con le spalle al banco liscio e freddo. Geme forte, ansima, stringe le dita ai bordi della cattedra, stringe gli occhi, la bocca si distorce, il viso si deforma e gode. Gode e basta.
    Affanna, respira, affoga e poi riprende fiato, la quando si libera nella bocca calda del ragazzo, la quando lentamente scivola di nuovo a terra con l'intero corpo, mentre quello del giovane è ancora in ginocchio davanti al suo. Sogghigna, tra un respiro e l'altro, tra gli ansiti bassi, mentre parte di quel liquido macchia ancora le sue gambe lisce. Ci sono frasi sussurrate, baci lenti e passionali, morsi dolorosi e scherzosi, alternanza di battiti del petto, di ansiti, di carezze e poi c'è solo la mano di uno nei boxer dell'altro, gli sguardi fissi, l'erezione che torna dritta, mentre l'altra trova appagamento da quella mano agile ed esperta. Altre parole, altri sussurri, gemiti bassi, respiri profondi e arrochiti. Un morso sul collo, le mani che vengono afferrate e spinte verso il legno, mentre i membri si strusciano e i bacini si muovono con vigore, andando a trovare appagamento in quel gesto accanito, veloce, lento, eccitante. E vengono entrambi, macchiando i ventri caldi, i boxer tirati all'orlo. Ridono piano, poi si baciano ancora ed è strana quella sensazione che invade i loro occhi, i loro pensieri, i loro cuori. Si guardano seri, poi si sfiorano appena coi visi vicini, si spingono via, si tirano contro, si avvicinano e allontano. E' un corteggiamento continuo, una danza, un rituale, poi sorridono di nuovo, come due bambini che hanno appena fatto una marachella, che hanno appena rubato un pacchetto di caramelle dal bancone di un negozio di dolci.
    Ed è lì che tutto si è dato, che tutto è stato preso, che il cuore è volato in alto, si è espanso al cielo ed è lì che quel luogo diventa sacro, importante, puro. Un tempio d'amore, di sesso, di fame. Un nido dove casa è un luogo d'amanti, un rifugio segreto, un posto rubato per amore del fato.




    ***




    Il volto si sposta a destra, l'unico letto della sala vicino al suo, l'unico dove c'è qualcuno disteso, lo stesso qualcuno che gli ha svuotato il petto, gli ha rubato gli organi e se li è mangiati, come una bestia affamata delle parti migliori, raffinata e selvaggia. Le labbra si alzano in un sorriso amaro, triste, mentre l'occhio è fisso sulla figura inerme, con una macchina che lo lega alla terra, alla realtà a quella frazione di spazio che noi chiamiamo vita.




    Quanto tempo ci resta prima di morire?

    Quanto tempo dobbiamo aspettare prima di ricollegare i fili spezzati?







    //Spazio all'immaginazione.

    Fanfiction dedicata a un Namita (alias cupida tarocca~) per un Natale angst perché se lo merita tutto. BARBONA! Tu e le tue idee malsane D: finalmente posso vendicarmi come si deve. Mi scuso per eventuali errori, non l'ho riletta da sveglia (insomma ho proprio evitato di rileggerla, scusate la bradipicità) spero comunque che vi abbia spezzato il cuore, l'anima e fatto scendere qualche lacrime. Altrimenti, saprò, che ha fatto letteralmente lece. A presto!


    Cigarettes;
     
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